Margherita
Morgantin, “TITOLO VARIABILE”, Edizioni Quodlibet 2009
Nota
critica di Armando Bertollo
Il
libro di Margherita Morgantin ci ripropone di riflettere su cosa
possa essere il ‘segno’, la ‘presenza’, la
‘consistenza linguistica’ della poesia e dell’arte.
Tutte le epoche della storia, tutte le civiltà hanno lasciato
tracce formali e linguistiche classificate dagli specialisti (e dal
pubblico) come arte e poesia. E queste tracce sono state considerate
di volta in volta come modelli di riferimento per la pratica stessa
dell’arte e della poesia. Ma l’esperienza e
l’osservazione più attenta di queste tracce, del loro
variare nella geografia culturale e nel tempo, hanno insegnato anche
che, se la conoscenza e l' imitazione del modello può essere
necessaria in una fase iniziale di studio e di apprendistato, ben
presto il modello non può più essere imitato, in quanto
l’imitazione conduce all’accademia, alla maniera,
all’artigianato: ovvero allo stereotipo di artisticità e
di poeticità. L’esperienza e l’osservazione non
superficiale, insegnano che la sfida di ogni autentica avventura
poetica e artistica, sarà quella di riuscire a smarcarsi dalla
potenza canonica del modello, cercando quella variante in grado,
prima o poi, di proporsi a sua volta come modello. Ma questo distacco
non avviene mai senza rischi. Uscire dal canone, tentare di riformare
il modello, implica una maturazione, un processo sul piano
linguistico e formale, paragonabile alla soluzione del ‘complesso
di Edipo’, al superamento della logica inibente del ‘dovrei,
ma non posso’. Superare questa fase di conflitto per
raggiungere l’autonomia, l’originalità, non è
affatto scontato. Discutere il “padre” può
risultare assai pericoloso: la messa al bando è dietro
l’angolo, con il conseguente isolamento e rischio di
annientamento. In effetti il modello normativo, il “padre”,
come il leader di un gruppo, è sempre pronto a riconoscere ed
accogliere chi non discute la sua autorità, che di fatto tende
a diventare opinione comune, normalizzazione, stereotipo appunto. Il
modello investe ogni ‘replica’ della sua autorità,
sia pure riflessa, la ‘integra’ nel gruppo, la fa
‘appartenere’, ne garantisce una identità
pubblica. Ma la ‘replica’, in quanto ‘replica’,
dovrà rinunciare alla propria luce, alla propria
individuazione. Come dire: l’appartenenza garantisce il
riconoscimento, ma preclude la possibilità dello sviluppo
originale che può aprire al futuro, alla maturazione di un
eventuale nuovo modello. A livello psichico spesso la forza
gravitazionale del modello di riferimento agisce e condiziona in
profondità, nell’inconscio, determinando preconcetti e
pregiudizi che inevitabilmente tendono a contrastare come improprie,
inadeguate, spesso quelle spinte, quelle necessità più
innovative, meno codificate, più autentiche. La scelta di
uscire dal canone è pertanto sempre una scelta coraggiosa e
senza alcuna garanzia: deve sapersi assumere il rischio del
fallimento, in quanto è ‘sperimentale’. O del
riconoscimento tardivo, se non addirittura postumo. Margherita
Morgantin con ‘Titolo variabile’ sceglie coraggiosamente
di uscire dal canone della scrittura poetica verbale, proponendo un
libro a prevalenza visuale che presenta un’autonomia
strutturale e stilistica svincolata anche dal canone dei libri
oggetto e calligrafici, nonché da quello della poesia visiva,
concreta e tecnologica. L’autrice, a partire dal suo personale
‘zabriskie point’, ci propone un’esperienza del
pensiero per segni, schizzi, disegni che affiorano nella sequenza
spaziale e temporale delle pagine, limitando la presenza del
linguaggio verbale a rarefatta congiunzione-introduzione o
contrappunto (come è scritto nella nota di retro copertina).
L’autrice non si fida più della parola. O meglio non si
trova a suo agio con essa, non la riconosce più. Dichiara:
“Non so parlare, non trovo le parole, quando le dico
significano altro da quello che pensavo.” “Provo a
disimparare la lingua. Disintossicazione dalle forze coercitive della
percezione, dei movimenti, dei significati simbolici legati alle
forme e ai sentimenti.” Ma non si arrende alla pagina
bianca. Non rinuncia all’esperienza umanizzante del cercare
comunque una ‘forma’ di scrittura poetica, un personale
confronto con il limite (origine) dove si sintetizzano possibilità
ed esperienza in 'fatto linguistico' che tende alla comunicazione.
In ‘Titolo variabile’ le frasi di scrittura verbale molte
volte sono delle formule, delle definizioni esatte che portano il
lettore ad interrogarsi sulla loro presenza/intervallo tra i
segni/disegni che sono la libera espressione della condensazione di
esperienza linguistica formale-formante ed esperienza esistenziale
esclusiva. La Morgantin sembra volerci condurre in un suo
spazio/tempo linguistico che va oltre le consuete convenzioni
estetiche. D’altro canto sembra volerci proporre anche di
riflettere esteticamente sulle definizioni linguistiche e formule
riportate, dove il fatto estetico è presente nella rigorosità
del pensiero esatto. C’è in questo libro qualcosa che ci
riconduce alla celebre chiusa del “Tractatus” di
Wittgenstein, parafrasata in una soluzione affermativa, dimostrativa,
come a voler correggere in altro modo il silenzio drammatico del non
dicibile. E che cos’ é l’arte, la poesia,
ritornando alla questione introduttiva — se non il reiterato
tentativo di sfidare l’indicibile, l’indimostrabile?
Tentativo che quando si dimostra autentico può accompagnarci e
dar ‘tono’ al nostro precario, sempre a ‘titolo
variabile’ appunto, cammino? Senza però farci smarrire
o illudere, nella nostra solo virtuale capacità di volare ,
in quanto , come ci ricorda l' autrice citando Cesare Viel, “ Le frasi ad alta
quota possono dare alla testa: si vedono migliaia di elicotteri in
cerca di un disperso.”
Schio,
1
maggio 2010
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